Slitta del medico condotto
In assenza di ospedali, i malati venivano assistiti a domicilio. Per il medico stipendiato dal comune la neve degli inverni alpini non poteva costituire un ostacolo all'esercizio della professione.
La slitta e lo smartphone
Chiamato dai parenti e conoscenti del malato, il medico accorreva nelle case con la sua borsa ricolma di strumenti. Spesso priva di un ambulatorio, quella del medico era una figura itinerante che viaggiava a piedi, in calesse o, in inverno, su una slitta. Era stipendiato dal comune, perché il suo lavoro era riconosciuto come un’attività di interesse collettivo a difesa della salute pubblica. L’epidemia di coronavirus ha evidenziato l’importanza della medicina territoriale e delle reti di assistenza. Il sistema basato sulla centralità dell’ospedale ha mostrato le sue fragilità, trasformando i pronto-soccorsi in focolai o lasciando i malati isolati in casa, senza assistenza domiciliare, se non quella delle reti di volontariato. Aziende come Google e Apple vedono nella telemedicina il business del futuro, ma dall’esperienza dell’epidemia emerge anche l’importanza di recuperare la dimensione sociale della salute e delle pratiche di cura. La vecchia slitta del medico che corre di casa in casa ne è un po’ il simbolo.
Cura
Tutte le culture distinguono fra “stare bene” e “stare male”. L’antropologia medica ha mostrato che, tuttavia, variano quel che si considera salute o malattia, l’individuazione delle cause e quindi le pratiche di cura. In occidente prevale la “biomedicina”, ovvero l’idea che le patologie siano dovute a un malfunzionamento dell’organismo, curabile attraverso farmaci. Il corpo fisico del malato è così posto al centro delle cure: la persona è messa in un luogo “altro” come l’ospedale, separata dal restodella collettività e “medicalizzata”, diventando così un paziente. In altre culture, invece, non è possibile curare le malattie se non nei contesti sociali in cui si sono manifestate. Salute e malattia, in questo senso, non sono qualcosa che riguarda esclusivamente il proprio corpo individuale, ma sono distribuite in reti di relazioni che legano le persone fra loro, agli altri esseri viventi e all’ambiente in senso lato. La pandemia, con le regole di distanziamento e con la cresciuta consapevolezza di un distorto rapporto con l’ambiente, ha riportato alla nostra attenzione la dimensione ecologica, sociale e politica della malattia.
Una riflessione
Note etnografiche dalla Cure Primarie e Territoriali
di Martina Belluto, Martina Consoloni e Mirko Pasquini
Campagna PHC – Primary Health Care: Now or Never
“La certezza che le Cure Territoriali dovessero essere differenti prendeva sempre più piede. Recluse, sofferenti e inascoltate durante il lockdown, le comunità sembrano più invisibili durante la pandemia. Una cura basata solamente sulla persona non è in grado di rappresentare il disagio che si sta vivendo sul territorio”.
Come ci muoveremo nel “dopo”? Che cosa erediteremo da queste settimane? In quale forma restituiremo le emozioni, i racconti e le azioni che stiamo intercettando giorno dopo giorno, presi dalla frenesia di tenere traccia di tutto ciò che sta accadendo? Iniziamo con queste domande una delle ultime riunioni virtuali tra le numerose di questo periodo, accompagnati da un senso di incertezza ormai costante. L’obiettivo che ci siamo prefissati è quello di trattenere le narrazioni di questo momento, mantenerle come se fossero ancore. In quanto antropologhe e antropologi della Campagna Nazionale “Primary Health Care Now or Never” già da tempo ci interroghiamo su quale possa essere il nostro ruolo all’interno delle Cure Primarie e Territoriali e su quali competenze sia necessario mettere in campo. Un’esigenza che in questo momento sentiamo più vicina che mai e che ci muove, assieme al desiderio di sentirci in qualche modo utili, presenti e uniti. Per questo oggi proviamo a raccontarvi l’esperienza che stiamo vivendo e che, secondo noi, sta lasciando affiorare alcuni spunti fertili per immaginare e costruire insieme il mondo che verrà.
La Campagna PHC Now or Never: cenni storici
La Campagna PHC è nata alla fine del 2017 da un nutrito gruppo di giovani professioniste e professionisti della salute attivi sul territorio nazionale, con l’obiettivo di promuovere una riforma dell’assistenza socio-sanitaria basata sui principi della Primary Health Care di tipo Comprehensive (C-PHC). Sulla scia della Dichiarazione di Alma Ata (1978), del World Health Report (2008) e della più recente Dichiarazione di Astana (2018), la C-PHC propone un approccio integrato (assieme promotivo, preventivo e curativo), centrato sul paziente, sulle sue relazioni significative e le comunità di cui è parte. I programmi ispirati alla C-PHC mirano a tessere assieme l’approccio clinico, incentrato sulle dimensioni biologiche della malattia, con interventi improntati ad interferire con la determinazione sociale della salute. Per tener conto delle specificità di ogni contesto geografico, economico e sociale, si stabilisce un confronto attivo con il territorio, per scoprirne e valorizzarne le diverse risorse, formali e informali. In un’ottica di cooperazione e di sostenibilità, si negozia con gli attori comunitari per costruire reti di assistenza. La C-PHC è quindi una strategia per strutturare la cura territoriale in maniera politicamente impegnata, proattiva, attenta all'equità e che si articola mediante azioni multi-professionali, interdisciplinari, orizzontali e partecipate (cfr. Abadía-Barrero e Bugbee, 2019).
La sfida posta dalla C-PHC può essere colta guardando al progressivo aumento delle cronicità e delle fragilità sociali che il modello sanitario attuale, basato sull’ospedale, non è in grado di affrontare. Per questo, nei suoi due anni di vita la Campagna si è mossa principalmente su due fronti. Il primo è quello dell’autoformazione, attraverso l’organizzazione autogestita di seminari, workshop e site visit presso diverse realtà italiane basate sul modello di C-PHC (fra le diverse realtà italiane visitate, nel 2018 la Campagna si è riunita a Trieste per conoscere da vicino l’esperienza delle Microaree, cfr. Belluto, Benedetti, Pecora e Occhini in Maciocco, 2019). Il secondo invece consiste nel portare all’interno del proprio contesto quanto appreso, mettendo in atto a livello locale “pratiche di cambiamento”, volte a costruire forme di prossimità con le comunità e a promuovere la formazione trasversale dei professionisti (prima, durante e post laurea). Come Campagna, oltre agli appuntamenti in presenza, ci confrontiamo quotidianamente su un canale Whatsapp che include ormai più di cento persone. Spesso ci organizziamo in sottogruppi tematici, per lavorare a proposte progettuali e approfondimenti.
La Campagna PHC ai tempi della pandemia.
A partire dalla fine febbraio, il nostro spazio virtuale si è trasformato: il telefono suona in continuazione, ci svegliamo la mattina con un’infinità di messaggi non letti, i gruppi non bastano più, dobbiamo allargarci, sentiamo la fretta e l’esigenza di includere altre persone. Sono specialmente i Medici di Medicina Generale (MMG) a scrivere. Alcuni di loro vivono nelle zone rosse, altri hanno iniziato a lavorare nelle USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale nate per la gestione domiciliare dei pazienti Covid-19. Scrivono perché vogliono sapere cosa succede nelle altre regioni, sentono il bisogno di confrontarsi sulle strategie elaborate per la gestione dell’emergenza, oltreché di condividere le difficoltà e le preoccupazioni che stanno vivendo.
“Chi risponde alle decine e decine di telefonate e mail?”
“Nel vostro caso la valutazione del paziente è telefonica o tramite visita?”
“Ho fatto un registro, li monitoro telefonicamente. Accetto di stare nove ore al telefono al giorno”.
“Provo a specificare meglio la mia fatica di questi giorni: riceviamo quotidianamente (come MMG) telefonate di pazienti con sintomatologia simil influenzale. Come ci comportiamo? […] Confrontandoci con l’Ufficio di Igiene abbiamo definito insieme questi percorsi, che condivido volentieri con voi (vi state comportando diversamente?)”.
“Quello che vorrei capire è se qualcuno si rende conto che il nostro ruolo è importante, e se abbiano dato un indirizzo agli MMG in tal senso”.
“Mi sto accorgendo che la conclusione ulteriore delle nostre riflessioni è… ABBIAMO BISOGNO DI DPI [Dispositivi di Protezione Individuale] SUL TERRITORIO”.
Questi sono solo alcuni dei messaggi che riempiono la nostra chat ogni giorno, in cerca di possibili consigli e di supporto. “All’improvviso, la mattina del 9 marzo ci siamo svegliati e tolti i corpi c’era
il telefono” ci racconta Viviana, una dottoressa che lavora a Cagliari, mentre insieme proviamo a riordinare le esperienze di queste ultime settimane. Mancano indicazioni, non si sa bene chi contattare, non si capisce come proteggersi e proteggere adeguatamente, in quale modo visitare i pazienti a domicilio. Non si è formati per un triage telefonico ma è necessario essere operativi. Si sente soprattutto la mancanza, da parte delle istituzioni, di una linea comune di intervento, per evitare di ripetere errori già commessi. Per rispondere a questa esigenza abbiamo creato insieme delle brevi guide in costante aggiornamento, per accompagnare i medici sul territorio e monitorare la gestione dei casi Covid-19 a domicilio. Nascono così, fra i molti materiali, anche delle flowchart (diagrammi di flusso), utili a orientare la decisioni e le scelte clinico-organizzative; un testo sul monitoraggio e le indicazioni dei possibili quadri clinici; un protocollo di gestione domiciliare dei pazienti vulnerabili o con patologie pregresse. Il materiale al quale facciamo riferimento è qui disponibile. Le proposte redatte dalla Campagna PHC intendono essere un supporto per i professionisti sanitari che in questa fase di emergenza lavorano sul territorio: necessitano di essere contestualizzate nelle singole realtà territoriali e possono essere utilizzate previa autorizzazione delle Ausl locali o enti sanitari di competenza. Man mano che proviamo ad orientarci nel caos frammentato di informazioni per affrontare questa pandemia, sempre più vengono a galla particolari degni di attenzione, i non-visti del quotidiano. Emergono bisogni che erano rimasti sottesi, appena percettibili, e che ora si fanno evidenti. L’isolamento crea e alimenta nuovi bisogni e ne rende poco riconoscibili altri; aumenta le disuguaglianze e l’emarginazione sociale. Il vuoto che si trova fuori dagli ospedali rinnova la consapevolezza della necessità di avere una medicina di famiglia radicata sul territorio (e parte di quel territorio), basata sul lavoro multidisciplinare e di rete, capace di mobilitare le risorse formali einformali. “Conosci il luogo che abiti?” è il mantra che permette di fare la differenza e di sentirsi meno soli. Salta la prossimità, saltano gli ospedali, aumenta il controllo sociale e l’incertezza. Crescono anche l’ansia e il senso di colpa degli operatori: per non poter fare abbastanza, per aver ospedalizzato o meno un paziente, per essere potenziali veicoli di contagio per gli altri e per i propri cari, per essere compagni, genitori, figli o amici poco presenti.
Storie Covid nelle Cure Territoriali
Tra le diverse iniziative che sono state avviate, come team antropologico della Campagna PHC (insieme a Valerio D’Avanzo e Francesco Diodati) ci siamo fatti promotori di “Storie Covid nelle Cure Territoriali”. Si tratta di un progetto pensato per intercettare il bisogno di condivisione e confronto degli operatori (firmatari e non della Campagna) e per provare a offrire loro, in risposta, alcuni strumenti utili a “fare ordine” (possiamo essere contattati attraverso numeri Whatsapp, un gruppo Facebook e un indirizzo email: qui maggiori informazioni). La proposta nasce dalla convinzione che in queste settimane le nostre chat siano un campo preziosissimo e traboccante di risorse, sebbene gli scambi avvengano in modo fisiologicamente disordinato. In questo sfibrante navigare a vista, avvertiamo come nostro compito quello di supportare la creazione di saperi e significati condivisi in grado di donare senso a ciò che sta accadendo. Attenti a non perdere la complessità che giorno dopo giorno si va generando, a chi ci contatta chiediamo: Come è cambiato il tuo lavoro nelle cure territoriali dall’arrivo del Covid-19? Quali strategie hai messo in campo dal punto di vista lavorativo e personale? Quali racconti, paure e riflessioni sono emersi da questa situazione?
Attraverso le narrazioni raccolte, l’obiettivo è quello di produrre un “diario di bordo” da restituire ai professionisti, una sorta di archivio delle narrazioni che possa, da una parte, far affiorare il carico di sofferenza che si dispiega oggi sul territorio e, dall’altra, supportare gli operatori nei loro tentativi di “addomesticare” la situazione (Freire, 1994). La nostra iniziativa si ispira infatti all’Educazione
Permanente in Salute (e.g. Ceccim e Feuerwerker, 2004), una strategia sviluppata nel contesto brasiliano che, mediante la messa in dialogo di diverse discipline, mira ad aprire spazi collettivi per riflettere sugli atti prodotti nel proprio quotidiano e, a partire da questi momenti, ad attivare pratiche collaborative di formazione. Abbiamo quindi messo a disposizione le nostre competenze per mappare e raccogliere la grossa mole di informazioni di questi giorni, cercando di sostenere processi di (auto)apprendimento e di (self)empowerment utili ad affrontare questa crisi con maggiore resilienza.
Parallelamente, sempre nell’ottica di promuovere approcci interdisciplinari alla gestione dei problemi, per rendere fruibile la grossa mole di informazioni, materiali e link è nato GLOCARED (“Global-Local Center per l'Aiuto e la Ricerca Ecosistemica Divergente”). GLOCARED è un team multiprofessionale che coinvolge designers, informatici, esperti di scienza della cooperazione, professionisti sanitari e antropologi, impegnati nella progettazione di piattaforme sensibili ai bisogni di natura tecnologica rilevati.
Le Cure Primarie che vogliamo (adesso!)
Come antropologhe e antropologi abbiamo vissuto queste settimane attraversando diverse fasi. In un primo momento, ci scoprivamo angosciati da un certo senso d’impotenza, dall’inadeguatezza dei
nostri modi di guardare e dei nostri saperi, di fronte all’emergenza che si stava consumando. Mentre le nostre certezze si sfaldavano, ci confrontavamo tra noi, ci raccontavamo di come stessimo
rimodulando i nostri progetti di ricerca e ci chiedevamo: che futuro può nascere dall’inaspettato? La certezza che le Cure Territoriali dovessero essere differenti prendeva sempre più piede. Recluse,
sofferenti e inascoltate durante il lockdown, le comunità sembrano più invisibili durante la pandemia. Una cura basata solamente sulla persona non è in grado di rappresentare il disagio che si sta vivendo sul territorio. La fragilità sociale e la cronicità non sono solo fattori clinici di cui tenere conto, bensì delle realtà di solitudine e abbandono. Realtà che la comunità è in grado di curare meglio di qualunque terapia. Prendendo parte alle riunioni della Campagna, un’altra certezza diventa sempre più forte: la formazione in medicina non può più essere solo di natura biomedica. Se i corpi si volatilizzano e rimane il telefono, quali competenze possono mettere in campo i professionisti per offrire un supporto concreto, terapeutico e relazionale? Non si può aiutare le persone a recuperare e a mantenere la salute senza comprendere le loro preoccupazioni, i loro bisogni e, soprattutto ora, le loro speranze per un futuro migliore. Il distanziamento sociale richiesto dalla gestione dell’epidemia deve allora trasformarsi in un allontanamento fisico in cui si riescano ad instaurare dei legami comunitari forti (per una discussione sul recupero della dimensione sociale nell’assistenza in tempi Covid-19 si veda Buffel, Doran, Lewis, Philipson e Yarker, 2020), dove curare e prendersi cura anche dei professionisti stessi, provati fisicamente ed emotivamente.
Forse una parte di tutto questo lo avevamo già in mente. Non a caso, gli incontri residenziali della Campagna che si sarebbero dovuti tenere in queste settimane avevano come titolo “Multidisciplinarietà e Primary Health Care: immaginare il futuro” (Firenze, 11-13 marzo) e “Le Cure Primarie che vogliamo” (Trento, 17-19 aprile 2020). Queste sono le Cure Primarie che vogliamo. E le vogliamo adesso, subito.
Bologna-Uppsala, 30 aprile 2020
Bibliografia
Abadía-Barrero, C. E., Bugbee, M. (2019) Primary health care for universal health coverage? Contributions for a critical anthropological agenda, Medical Anthropology, Cross-Cultural Studies
in Health and Illness, 38(5), 427-435.
Belluto, M., Benedetti, C., Pecora, N., Occhini, G. in Maciocco, G. (a cura di) (2009) Cure primarie e servizi territoriali. Esperienze nazionali e internazionali, Roma: Carocci Faber
Professioni Sanitarie.
Buffel, T., Doran, P., Lewis, C., Phillipson, C., Yarker, S. (2020) Covid-19: Bringing the social back in, The Age of COVID-19, Somatosphere, on-line.
Ceccim, R. B., Feuerwerker, L. (2004) O quadrilátero da formação para a área da saúde: ensino, gestão, atenção e controle social. Physis: revista de saúde coletiva, 14(1), 41-65.
Freire, P. (1994) (ed. it. 2004) Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, EGA, Torino.
WHO: World Health Organization (1978) Declaration of Alma-Ata, International Conference on Primary Health Care, Alma-Ata, URSS, Geneva (Health for All Series N° 1), on-line.
WHO: World Health Organization (2008) The World Health Report - Primary Health Care (Now More Than Ever), on-line.
WHO: World Health Organization and UNICEF (2018) Declaration of Astana, Global conference on primary health care, Astana, Kazakhstan, on-line.