ferro da stiro

ferro da stiro

Piccolo ferro da stiro elettrico da viaggio: innovativo rispetto alle antiche piastre in metallo o ai ferri a carbone. Un elettrodomestico dal sapore di futuro.

Futuri (im)possibili

Il ferro da stiro elettrico è il segno di un mondo che cambia e ci aiuta a non imbalsamare il passato nella staticità della “tradizione” e della nostalgia. In realtà nessuna società sta mai ferma, tutte cambiano e sono immerse nella storia, tutte costruiscono attivamente il proprio presente guardando al proprio futuro. Il ferro da stiro e l’elettricità rimandano a sogni di modernità e a speranze di cambiamento, così come a paure e senso di perdita. I nuovi oggetti portano sempre con sé fantasie (o incubi) sul futuro che verrà. L’epidemia di coronavirus, che ha trasformato radicalmente la nostra vita sociale, ha anche avuto un impatto sulla cultura materiale. Per esempio, ha introdotto nella vita quotidiana mascherine, app per il tracciamento dei contatti, barriere di plexiglas, rilevatori di temperatura e tanti oggetti e piccoli elettrodomestici (come quelli per fare il pane in casa) con cui abbiamo occupato il tempo durante il lockdown e stiamo gestendo il nostro rientro nel mondo. In che misura stanno contribuendo a cambiare le nostre vite e la nostra idea del futuro?

Tempo

Gli antropologi e le antropologhe hanno guardato soprattutto al presente delle società in cui hanno svolto le loro ricerche, spesso con la testa rivolta al passato e alle “tradizioni”. Solo recentemente hanno iniziato a occuparsi di futuro. Hanno così prestato attenzione a sogni, desideri, paure e aspettative di cambiamento, concependoli come fatti culturali, più che individuali. Visto in questa prospettiva, il tempo non procede in maniera univoca e lineare, non c’è un unico futuro ma diverse visioni del mondo che verrà che coesistono (e competono) nella stessa società, con possibilità diverse di imporsi e realizzarsi. La stessa capacità di aspirare al cambiamento non è ugualmente distribuita fra le persone e varia da cultura a cultura. Nella società postmoderna la precarietà crescente, l’enfasi sulla flessibilità e il valore della gratificazione immediata tendono a comprimere l’orizzonte temporale delle persone nel presente. La pandemia sollecita una diversa visione del futuro?

Una riflessione

Ritorno al futuro
di Valentina Mutti, Università degli Studi di Milano "La Statale"

“In alcuni contesti culturali, tra cui appunto il Madagascar (e il Perù, in un'espressione quechua), il futuro è visto dietro di noi, perché non lo possiamo vedere, mentre il passato è davanti agli occhi, in quanto conosciuto e osservabile”.

Nel 2016 andai per una breve trasferta in Sierra Leone, per incontrare le principali Università ed alcune istituzioni che si occupano di formazione, Paese di cui colpevolmente conoscevo poco.
Una delle poche cose che ricordavo bene, oltre alla guerra civile, era naturalmente l'epidemia diEbola che era stata dichiarata conclusa da poco e che aveva colpito duramente in quella fase Liberia, Guinea e appunto Sierra Leone. Poco prima di partire, grazie a un consiglio di un amico che aveva condotto la sua etnografia lì, avevo visto un documentario, Back in touch, che raccontava il ritorno alla vita normale, dopo un lungo periodo di scuole chiuse, assembramenti vietati, stadi vuoti, relazioni amorose distanti.
Suddiviso in otto capitoli, raccontava di famiglie, sepolture, negozi, partite di calcio, gravidanze indesiderate, economia informale e dello slum di Freetown. Parlava della vita al tempo di Ebola, che era un tempo con una data di inizio (il cosiddetto “paziente zero”) ma più difficilmente una data certa di fine: i cittadini si trovavano a vivere una fase di convivenza con l'epidemia, fatta di precauzioni, paura, trasgressioni delle norme e grande incertezza, a cui si aggiungevano i problemi strutturali del Paese, la disoccupazione, la povertà, le diseguaglianze.
Durante quel breve viaggio l'epidemia e il suo fantasma erano presenze silenziose, poco citate ma in realtà evocate spesso: cartelli per le città e nei bagni delle università dichiaravano “Ebola is not over”, bottigliette di disinfettante per mani erano sui tavoli di tutti i bar e gli studenti e i professori incontrati avevano a che fare con un anno accademico nuovo, con nuove sfide e carenze.
Lo studio di fattibilità per cui ero partita non si è trasformato in un progetto e in quel Paese non sono più tornata: da alcune settimane però ripenso spesso a quei cartelli e ai racconti della ripresa della normalità, che allora – evidentemente vittima anch'io dell'alterizzazione della malattia e della fragilità – avevo percepito come così distanti e irriproducibili nel mio contesto. Invece, per le prime settimane di epidemia Covid in cui l'Italia risultava il secondo Paese dopo la Cina per contagi, il mio telefono ogni mattina riceveva messaggi preoccupati da altri Paesi africani frequentati, il Madagascar e il Ghana, che si assicuravano della mia salute e mi chiedevano dettagli della vita in quarantena: come si va al mercato? Come si pagano le multe se non si hanno soldi? Eravamo noi di colpo l'oggetto di attenzione del mondo, eravamo noi quelli vulnerabili da guardare con apprensione. La traduzione reciproca di cosa stava accadendo si è per certi versi semplificata quando i confinamenti sono stati applicati anche dalla maggior parte dei governi africani e il tema delle mascherine, del limitare gli spostamenti, del “restare a casa” è diventato quotidiano, seppur con alcune marcate differenze, anche nella vita dei miei amici, conoscenti, interlocutori africani. E in questo dialogo virtuale di rimandi, in cui a richieste di suggerimenti su precauzioni da prendere che mi sono state fatte o domande sui tempi di produzione del vaccino, si è affiancato l'annuncio, il 21 Aprile 2020, del Presidente del Madagascar Andry Rajoelina del Covid-Organics, di un rimedio a base di piante medicinali che è stato poi distribuito a tutti gli studenti malgasci in vista della riapertura delle scuole.
Di nuovo, l'assunto base che impariamo nel primo esame di antropologia, il decentramento, si stava realizzando: la medicina occidentale e il credito di fiducia che le si attribuisce “dal sud del mondo” non era più sola al centro della soluzione e, pur con scetticismo e critiche da fronti locali e internazionali, un'isola dell'Oceano Indiano conquistava (alcune) pagine dei giornali e diverse piattaforme delle diaspore africane in Italia. Nei giorni si sono succedute altre notizie come quella di un test di diagnostica rapida per individuare i positivi al virus prodotto dai laboratori dalla seconda università ghanese, il KNUST di Kumasi, rimanendo nell'ambito dei Paesi su cui mi informo maggiormente.
Questo dialogo a singhiozzo, dove si intrecciano i ricordi di un breve soggiorno in Sierra Leone, la ricerca di notizie sui media africani, le conversazioni con amici malgasci su Messanger, l'immaginazione delle nostre reciproche quotidianità in casa, le riflessioni degli analisti, porta naturalmente ad interrogarsi sul futuro, in una prospettiva globale, che è quella che la pandemia per sua stessa definizione ci suggerisce.
In alcuni contesti culturali, tra cui appunto il Madagascar (e il Perù, in un'espressione quechua), il futuro è visto dietro di noi, perché non lo possiamo vedere, mentre il passato è davanti agli occhi, in quanto conosciuto e osservabile: questa metafora linguistica mi ha sempre fatto pensare che in contesti dove l'incertezza (economica, sociale, a volte politica) prevale, la capacità di essere radicati nel presente sia maggiore, pur lasciando spazio ovviamente ai desideri e alla “capacità di immaginare” che l'antropologia contemporanea giustamente celebra.
Ripartire allora dal passato che abbiamo davanti agli occhi e da equilibri precari del presente che mai come adesso sembrano venire in superficie in tutta la loro zoppicante verità sembra necessario: dal lavoro ai rapporti di genere, da quale ruolo attribuiamo alla scuola alla questione della casa e dell'abitare, dalle responsabilità individuali a quelle delle istituzioni.
Il mondo che verrà, dall'osservatorio che questi mesi di cambiamenti rappresentano, spero saprà alimentare ancora un dialogo con un altrove che per ciascuno di noi (etnografi in primis) si colloca in alcuni luoghi specifici, ma che è soprattutto un esercizio di distanziamento, questa volta (speriamo) non letterale, dalle nostre convinzioni, dalle nostre certezze, dal nostro modo di guardare alla vulnerabilità e al futuro.

Milano, 2 maggio 2020